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Come si diffonde il COVID e perché le regole di distanziamento sociale non sono la soluzione
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Come si diffonde il COVID e perché le regole di distanziamento sociale non sono la soluzione

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Giocare a nascondino con il virus
Per capire come combattere al meglio la diffusione della pandemia di COVID-19 analizziamo gli studi accademici sui principali canali di contagio dei coronavirus e approfondiamo perché questi canali e la loro prevalenza possono cambiare da comunità a comunità, da paese a paese.
Questo studio taiwanese ha messo in evidenza come nessuno degli infetti facenti parte della popolazione osservata durante lo studio abbia trasmesso il virus in ambito nosocomiale, un risultato in linea con osservazioni fatte anche in Cina e ad Hong Kong. Se questo dato vi sembra incompatibile con il diffuso contagio nosocomiale in Europa, è perché i paesi asiatici non hanno sperimentato la drammatica carenza di DPI a cui stiamo assistendo nel Vecchio Continente. Chiaramente, il modo migliore per fermare le epidemie di COVID-19 è proteggere gli operatori sanitari con DPI adeguati, comprese tute protettive, non solo maschere di tipo N95. Questo è il percorso più semplice per la soppressione del virus: proteggere in modo consono gli operatori sanitari negli ospedali e rinchiudere il resto della popolazione a casa.
Poiché nella maggior parte del mondo abbiamo già fallito nel seguire il percorso più semplice, dobbiamo ora trovare nuovi modi alternativi per ridurre al minimo il contagio. Mentre sappiamo che le infezioni domestiche hanno mantenuto il virus in circolazione anche dopo l’implementazione dei lockdown in Europa, recenti ricerche mostrano che il contagio tra membri della stessa famiglia è meno preminente di quanto si possa pensare. Nello studio taiwanese di cui sopra il tasso di attacco clinico secondario (ovvero la percentuale di persone infette divisa per le persone entrate in contatto con il caso pertinente) è stato del 13,6% tra i contatti domestici e dell’8,5% nei contatti familiari non domestici (la famiglia allargata, si direbbe in Italia).
Per una volta la Cina e Taiwan sembrano essere allineate in quanto un altro studio cinese ha stimato tassi di attacco molto simili del 13,8% se i contatti familiari vengono definiti come tutti i parenti stretti e del 19,3% se i contatti familiari includono solo quelli allo stesso indirizzo di residenza degli infetti.
Come sono stati possibili dunque questi gravi focolai in Europa e in Corea del Sud se il contagio familiare sembra essere così limitato? Come possiamo conciliare l’alto indice di riproduzione del virus (che molti stimano attorno al 5) con tassi di attacco inferiori al 20% per i stretti contatti familiari? Una possibile spiegazione è che solo una parte della popolazione mondiale sia altamente sensibile al virus mentre ampie fette della popolazione siano piuttosto resilienti all’infezione da COVID-19. Ciò potrebbe essere dovuto a fattori genetici ma anche alla storia epidemiologica di una determinata comunità. Se una comunità ha avuto precedenti infezioni da virus appartenenti alla famiglia dei coronavirus negli ultimi mesi, molte persone all’interno di tale comunità potrebbero aver in questo momento una maggiore immunità al nuovo coronavirus. Mentre queste speculazioni sono intriganti, al momento non abbiamo studi scientifici convincenti che possano supportarle e rafforzarle. Pertanto, dovremmo concentrarci su altre due possibili e più documentate risposte che potrebbero essere interconnesse: la prevalenza di individui “superspreaders” (chiamiamoli pure superdiffusori in italiano sebbene sembra di riferirsi ad attrezzi da parruchiere) e il ruolo della trasmissione aerea in ambienti al chiuso.
Superdiffusori non si nasce, untori si diventa
Le ragioni alla base dell’apparente divergenza nel calcolare un basso tasso di attacco in campioni limitati di popolazione e poi osservare alti tassi di infezione nella popolazione totale sono probabilmente dovute alla presenza di superdiffusori. Mentre gli individui in media possono infettare solo il 15% dei contatti stretti, i superdiffusori possono infettare una percentuale molto maggiore di persone (anche tra i contatti a basso rischio). Se il campione studiato non include un superdiffusore, la velocità del contagio derivata è notevolmente sottovalutata.
La super-diffusione si verifica per una serie di fattori interconnessi che possono rafforzarsi a vicenda in un circolo vizioso: un picco di contagiosità che coincide con un giorno in cui il contagiato è socialmente attivo, una maggiore frequenza di starnuti e tosse mentre si lavora in un ambiente al chiuso (per maleducazione o altra causa), un pauci-sintomatico che per caso si ritrova seduto nel mezzo del flusso d’aria di un ristorante molto frequentato, il malato-eroe che nonostante la presenza prolungata di sintomi influenzali insiste nell’avere avere una vita sociale molto attiva. La maggior parte di queste variabili sono legate a comportamenti specifici e quindi, sebbene di natura culturale, comportano anche un alto grado di casualità: se la maggior parte dei contagiati in una comunità locale è tra gli individui socialmente più attivi (e imprudenti), la super-diffusione è un pericolo reale.
Durante le ricerche sulla pandemia della SARS, gli scienziati hanno confermato la regola del 20/80, in base alla quale si osserva come una piccola percentuale di individui all’interno di qualsiasi popolazione possa essere responsabile per la maggior parte dei contagi all’interno di tale popolazion. L’analisi della trasmissione della SARS e altri focolai hanno svelato uno scenario complesso in cui eventi di super-diffusione sono modellati da molteplici fattori, tra cui la co-infezione con un altro patogeno, l’immunodepressione, i cambiamenti nelle dinamiche dei flussi d’aria, ricoveri ospedaliero ritardati, diagnosi errate, e trasferimenti interospedalieri (nota: a Brindisi ne sappiamo qualcosa…).
Come si può dunqe impedire che si verifichino eventi di super-diffusione? Semplice (ma non proprio), limitando la trasmissione aerea interna.

Contagio aereo
Cosa costituisca la trasmissione aerea del virus è sorprendentemente un argomento piuttosto controverso. Sappiamo che come ogni altro coronavirus il Sars-Cov-2 è presente nelle goccioline emesse dagli individui mentre tossiscono e/o starnutiscono. Si ritiene che queste goccioline siano la principale causa di contagio. Tuttavia, ciò non spiegherebbe alcuni casi segnalati di contagio da asintomatici. Ciò ha portato a speculazioni selvagge sul fatto che il virus possa diffondersi “nell’aria”, il che di per sé non significa nulla.
Quando si parla di emissioni orali e nasali, la discriminante è la dimensione delle particelle emesse. Le particelle di aerosol (definite come inferiori a 5 µm) vengono emesse attraverso il respiro (senza la necessità di starnutire) mentre le particelle-goccioline (definite come maggiori di 5 µm) vengono in genere emesse solo quando si tossisce e starnutisce. Entrambe contengono il virus ma le particelle di aerosol contengono molte meno copie del virus, rendendo così molto meno probabile un’infezione attraverso l’aerosol. Quando gli esperti parlano di contagio per vie aeree si stanno riferendo nella maggior parte dei casi al contagio via aerosol, sebbene alcuni usino questo termine anche per descrivere il contagio tramite goccioline, creando così una confusione non da poco nei non-esperti.
Ciò che conta per davvero è tuttavia la natura dell’esposizione. Essere esposti a qualcuno che tossisce ripetutamente a pochi metri di distanza probabilmente risulterà in un contagio ma essere contagiati dopo aver respirato la stessa aria per due minuti in un ascensore con una persona infetta è praticamente impossibile. Ma cosa accade se si permane nella stessa stanza con una persona infetta (ma che non sta tossendo) per qualche ora? In questo scenario le probabilità di contagio sono difficili da stimare e dipendono da talmente tanti fattori che di fatto sono totalmente casuali. Cosa pensa l’OMS a riguardo di questo scenario di difficile interpretazione?
Una review dell’Organizzazione Mondiale della Sanità datata 2009 affermava che le malattie virali infettive possono essere trasmesse attraverso aerosol a distanze rilevanti per gli ambienti interni e possono causare un grande numero di contagi in un breve periodo. Immediatamente dopo l’emissione, la goccia che trasporta il contenuto virale si diluisce e viaggia nell’aria trasportata dal flusso d’aria. Nel processo, la concentrazione del virus non aumenta uniformemente nell’ambiente interno, ma è bensì elevata solo nel “corridoio” esposto al flusso d’aria (se c’è un’adeguata ventilazione, come è normalmente il caso nelle strutture mediche o sugli aeromobili). In breve, ciò significa che se si verificano le giuste circostanze, una sola persona situata per caso lungo il flusso d’aria principale di un ambiente chiuso può infettare molte persone all’interno dello stesso ufficio o della stessa scuola se le persone rimangono esposte per una quantità di tempo sufficiente.
La fine dell’ufficio
Uno studio del CDC che ha esaminato il focolaio di un call center sudcoreano ha mostrato che la maggior parte dei casi era concentrata nello stesso piano dell’edificio interessato, dove il tasso di attacco clinico era del 43,5%. L’entità dell’epidemia illustra come un ambiente di lavoro ad alta densità possa diventare un sito ad alto rischio per la diffusione di COVID-19 e potenzialmente una fonte di ulteriore trasmissione. “Nonostante una notevole interazione tra i lavoratori su diversi piani dell’edificio negli ascensori e nella hall, la diffusione di COVID-19 era limitata quasi esclusivamente allo stesso piano, il che indica che la durata dell’interazione (o contatto) sia stata probabilmente il principale facilitatore della diffusione “.
Osservando questi risultati, soprattutto se confrontati con i tassi di attacco dei contatti domestici, sono propenso a pensare che gli uffici, più delle case e più dei trasporti pubblici siano i principali fattori di contagio nei paesi occidentali. Ciò ha importanti implicazioni di sanità pubblica. Mentre i ristoranti dovrebbero riaprire ad un certo punto (e secondo me prima è meglio è), gli uffici sono e saranno continuamente esposti al rischio che un dipendente malato (e molto diligente) si presenti a lavoro e infetti metà dei colleghi. Impedire la vita sociale non è sostenibile a lungo termine.
Se le persone non riescono a incontrarsi in un ristorante, si riuniranno nelle loro case dove la probabilità di contagio sarebbe leggermente inferiore a quella di un ristorante al chiuso, poiché le case sono in genere più arieggiate rispetto ai ristoranti, ma inferiore a quella di ristoranti e bar all’aperto. Gli uffici, d’altra parte, rappresentano un enigma perché, contrariamente ad altri ambienti di lavoro come le fabbriche manifatturiere, non sono, ai nostri giorni, strettamente necessari.
Limitare la forza lavoro presente nello stesso momento in ufficio allevia solo in parte i rischi di contagio, imporre di indossare mascherine per la maggior parte della giornata è poco pratico mentre vietare lo stretto contatto con altri lavoratori rende ridondante andare in ufficio. Rendere nuovamente possibile la vita d’ufficio è la più grande sfida che attende le aziende di tutto il mondo. Considerazioni simili valgono anche per la scuola, ma abbiamo prove crescenti che bambini e adolescenti hanno molte meno probabilità sia di essere infettati che di infettare altre persone.
Il distanziamento sociale non è la soluzione finale
La maggior parte delle prove empiriche sui canali di contagio a mio avviso mette in risalto l’inadeguatezza delle correnti disposizioni di distanziamento sociale nel risolvere l’epidemia nel lungo termine. Proposte come proibire la prenotazione di tutti i posti a sedere negli aerei sono inutili se il flusso d’aria (e non la distanza tra passeggeri) è il motore del contagio. Allo stesso tempo, mantenere un metro di distanza all’aperto è ridondante perché se si incrocia uno sconosciuto – a meno che questi non tossisca di proposito addosso agli altri – la probabilità di contagio è nulla. Se invece parliamo di un gruppo amici che vanno a fare una passeggiata, mantenere un metro di distanza tra di loro (oltre ad essere poco pratico) potrebbe anche rivelarsi inutile perché dopo ore di respiri ad un metro l’uno dall’altro il contagio rimarrebbe altamente probabile.
Trovo che spaventare il pubblico per incoraggiarlo alla difesa del proprio spazio personale quando è a contatto con sconosciuti sia controproducente. Dobbiamo educare le persone a pensare di più in termini di durata dell’esposizione, e non di distanza. Salire su un autobus non affollato per alcune fermate è rischioso ma probabilmente è meno rischioso che fare shopping in un supermercato per un’ora. In entrambi i casi indossare una maschera ridurrebbe drasticamente i rischi. Ma si dovrebbe indossare in entrambe le circostanze o solo al supermercato? La risposta alla domanda è correlata al rischio relativo che il singolo individuo correrebbe quale contrasse il virus e alla sua percezione di tale rischio. Pertanto, se lasciassimo questa decisione alla saggezza individuale, rischieremmo di ingenerare confusione e causare litigi tra sconosciuti.
Tuttavia, se codifichiamo situazioni e/o ambienti in cui è indispensabile indossare le mascherine, possiamo ridurre significativamente il contagio senza estendere eccessivamente i divieti del governo. Per esempio, vuoi salire su un volo? Devi indossare una mascherina, non negoziabile. Vuoi andare in bici con gli amici? Lasciamo a te decidere se indossare una maschera perché la tua attività non mette a rischio diretto degli estranei.
Calibrare un sistema di regole e regolamenti e integrarlo con convenzioni sociali di nuova formazione basate sulla stigmatizzazione dei cattivi comportamenti e sulla ricompensa di comportamenti altruistici è cruciale per il contenimento della pandemia. Questo non è un nuovo processo in sé, è qualcosa che le civiltà moderne hanno usato per secoli per adattarsi ed evolversi.
Tutte le persone vive oggi provengono da una lunga fila di antenati che sono sopravvissuti a svariate pandemie. Cerchiamo di non deludere chi ci ha preceduto…

Lorenzo Coccioli