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La fuga dai grandi centri metropolitani è davvero realtà?
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La fuga dai grandi centri metropolitani è davvero realtà?

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Nonostante le paure di nuove ondate pandemiche, dovute per lo più alla presenza di troppi soggetti non vaccinati (a proposito quando finalmente verrà introdotto l’obbligo vaccinale per tutti?) un po’ come in uno di quei film della Disney che volge al finale, l’atteso lieto fine sembra essere, molto lentamente, in arrivo. Siamo tornati a uscire, ci siamo appassionati agli europei allo stadio e ora, grazie al green pass, si stanno riattivando tutte quelle attività a lungo tenute chiuse in questi mesi. Eppure dubito che proprio tutto tornerà a filare come prima o come nei cartoni animati.

Il mondo è cambiato (soprattutto quello occidentale) e i segnali sono tanti. Alcune settimane fa, ad esempio, sul quotidiano Domani lo scrittore Paolo Cognetti, affermava: “io sono convinto che lavorare da casa sia brutto perché bisognerebbe uscire e incontrare altre persone e invece quasi tutti mi rispondono che non è così. Sembra che questa cosa che ci è successa (il Covid) abbia rilevato come il luogo di lavoro non sia più un elemento centrale nella nostra società e questo sta aprendo delle possibilità inimmaginabili prima, anche ovviamente sull’abitare”. Qualcosa è cambiato e non sono solo queste parole a raccontarlo, ma il tema dello smartworking come elemento da mantenere, quella fuga (?) dai grandi centri abitati e la clausura che in molti si stanno imponendo anche ora, proprio sul calare della pandemia devono farci riflettere su quel che sta succedendo.

Forse si sta materializzando il crollo di alcune certezze come il lavoro, la casa e la famiglia, su cui era stata costruita la vita di intere generazioni, come tanti piccoli fiumi che confluiscono nel grande corso del cambiamento di questo tempo. Il lavoro, ad esempio, può essere svolto altrove e di conseguenza il concetto stesso di casa, dell’abitare, cambia e con esso le relazioni affettive che in virtù di questa maggiore fluidità tendono a essere meno stabili e a reggere peggio nei confronti degli urti del tempo e del vivere. Ed è in questo falò dei simboli, adorati da più generazioni, che emergono con più foga le contraddizioni del presente.

La prima è quella che vorrebbe i giovani pronti a trasferirsi su di un eremo e dimenticare la città: falso. Piuttosto quella che verrà sarà una fase di mediazione tra città e non-città. Staccarsi dai centri urbani, infatti, significa rinunciare al fruire delle relazioni, delle esperienze e delle opportunità, che soprattutto in una città come Milano, simbolo di questo trittico, si caratterizzano come elemento d’attrazione principale. In secondo luogo l’idealizzazione delle non-città è destinata a svelare presto la sua ipocrisia, le contraddizioni e i difetti di un mondo che da fuori si conosce pochissimo e sul quale si tende più che altro a proiettare i propri desideri. Se quindi la città ha mostrato a tutti, proprio durante il lockdown, il suo lato più cupo, è vero anche che a breve esso tornerà a ripresentarsi anche là dove al momento regna incontrastata l’idealizzazione, ovvero nelle non-città. Che fare quindi?

Io penso che sia opportuno ripartire dalle parole che, il Presidente Mattarella, ha pronunciato proprio a Milano in occasione del lancio al Campus del Politecnico di Milano, che mi hanno colpito molto: “I tanti cambiamenti urbanistici di Milano sottolineano la proiezione verso il futuro in sintonia con il momento che il nostro Paese sta attraversando: non un ritorno alle condizioni precedenti alla pandemia, ma un nuovo inizio su condizioni adeguate alla realtà che ci si presenterà in futuro”. La potenza di questo messaggio è racchiusa in quella negazione di ritorno al passato e nella consapevolezza che nulla torna mai ad essere quello che era prima. Per questo occorre quindi progettare, sin da ora, delle città nella quale si possa pensare di trascorrere una vita intera, dalla scoperta dell’amore alla crescita dei propri figli, fino a giungere alla vecchiaia. E per fare questo bisogna aprire gli occhi sugli scandali delle Rsa, sull’insensatezza dei ritmi di lavoro e del costo della vita milanese e infine promuovere una fase di transizione nella quale la città sia più vicina alla non-città. D’altro canto sarebbe impensabile cambiare una metropoli come Milano in un solo giorno, o mandato, occorrono invece più tappe e punti d’equilibrio tra le nuove esigenze della collettività e la visione della città di domani che dovrà necessariamente essere più orientata all’attenzione per la qualità della vita.

Solo in questo modo sarà possibile passare dal “vissero felici e contenti” dei cartoni animati alle aspettative e desideri di intere generazioni, che vorrebbero poter scegliere di vivere in città a misura d’essere umano, piuttosto che continuare ad adattarsi ad essa.

Francesco Caroli