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Unione Europea: i meccanismi da rivedere
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Unione Europea: i meccanismi da rivedere

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Alla domanda “Che cosa non va nell’attuale Unione?” si può rispondere in molti modi. La politica di solito dà la colpa al crescere dei movimenti populisti, che stanno dilagando in tutti i maggiori Stati europei. Ma questa è probabilmente solo l’effetto di politiche sbagliate e di scelte miopi, che si protraggono da decenni senza che nessuno abbia pensato a come porvi rimedio. La verità è che le classi politiche – tutte, a livello europeo e forse mondiale, non solo italiano – sono diventate miopi e internet-dipendenti, incapaci di pronunciare la parola “pianificazione” e ancor più “visione”, figlie legittime di un’altra parola tabù almeno dal 1989: “ideologia”. Il risultato dell’afasia permanente delle classi politiche è stato, da almeno il 2008 ad oggi (data dell’ultima grande crisi economica mondiale), il crescere delle diseguaglianze e della povertà nei paesi più ricchi. Di qui il crescere di movimenti populisti anti-élite, dai gilet gialli in Francia al Movimento 5 Stelle in Italia, e ovviamente dei movimenti più populisti di tutti, quelli di estrema destra pronti a cavalcare rancori neo-razzisti ovunque.

La campana populista ha iniziato a suonare in tutti i paesi europei, spingendo i governi a rincorrere i movimenti populisti e di destra, su tutti i temi possibili. Dalla politica fiscale (“meno tasse per tutti”) alla politica contro l’immigrazione, all’ossessione securitaria, fino alla difesa puntuta degli interessi nazionali anche in campo sanitario quando si era in mezzo a una pandemia. Ecco perché, sinteticamente, la causa di un’Europa debole e impotente viene attribuita al crescere dei movimenti populisti.

Ma proprio l’esempio della pandemia del COVID-19 serve a capire cosa fare per uscire dall’impasse. In questo caso l’Europa (cioè i suoi organi più “comunitari”, la Commissione e il Parlamento), non appena ha tentato di reagire con azioni comuni, per esempio con il Recovery Plan, si è infranta contro i veti ora di uno Stato membro ora di un altro. Contro qualsiasi mossa comunitaria si è data la contromossa intergovernativa: il veto. Cioè, quel maledetto articolo dei Trattati che vincola le principali decisioni del Consiglio Europeo (il c.d. vertice dei capi di Stato e di Governo della UE) all’unanimità. O al “consenso”, come di solito si preferisce definire questa regola nelle stanze ovattate delle istituzioni europee.

Il consenso. Un termine per ricordare il lato positivo per cui era stata pensata questa regola: impedire lo strapotere dei grandi Stati, e proteggere i piccoli. Un modo per cercare il consenso, cioè la trattativa, il convincimento, per smussare gli angoli, e fare in modo che tutte le decisioni, anche le più difficili, tenessero conto degli interessi di tutti. Questo, però, alla lunga, si è dimostrato essere un elemento estremamente negativo che consentiva sì le decisioni, ma dopo lunghissime ed estenuanti trattative, e ovviamente al ribasso.

Un esempio? Sull’immigrazione, non si riesce a modificare il Trattato di Dublino che prevede ogni responsabilità solo in capo allo Stato di prima accoglienza, perché vi si oppongono almeno quattro Stati, i cosiddetti “quattro di Visegrad” (Polonia, Ungheria, Rep. Ceca e Slovacchia). Ma ne basterebbe uno solo, e nessuna decisione sarebbe possibile.

Altro esempio? Il Recovery Plan. Quando l’Europa (cioè la Commissione, il Parlamento e due Stati in prima linea, Italia e Francia) si è mossa per agire comunitariamente contro il Covid-19, per finanziare con un debito comune i Paesi più colpiti, alcuni piccoli Stati si sono ribellati a questa “imposizione dei grandi”: Olanda, Austria, Svezia, e altri. I cosiddetti “frugali”. Certo, perché dall’altra parte chi c’era? Gli “scialacquoni”: Italia, Spagna, Grecia, con la Francia che, assalita improvvisamente dallo tsunami del Covid, se ne faceva portavoce, avendo intuito che la crisi l’avrebbe presto colpita duro. Ma la situazione si è sbloccata solo quando anche la Germania – che costituisce con la Francia l’asse portante dell’Unione – si è resa conto di quale disgrazia stava per travolgerla, e che questa disgrazia avrebbe devastato i suoi mercati europei primari (Italia e Spagna). Le pressioni di Francia e Germania sono state tali che, con qualche piccolo compromesso, i paesi frugali hanno dovuto cedere.

E’ quindi la prima volta che la UE avrà un prestito obbligazionario comune, a beneficio dei Paesi colpiti, ma finanziato in modo indiviso da tutti gli Stati membri. Si ripeterà? Dipenderà da quanto saranno bravi i Paesi colpiti, Italia in testa, a dimostrare che questa soluzione è un affare per tutti. Cioè a usare bene tutti quei soldi (L’Italia riceverà più di 200 miliardi di euro), servirsene per investimenti produttivi, uscire dalla crisi e ripartire alla grande. Possibilmente riducendo anche il debito sovrano. Solo così lo strumento della mutualizzazione del debito potrà avere un futuro. E con esso domani, chissà, una politica fiscale comune, un bilancio comune. Insomma, una vera Unione Europea.

Conclusione? Per poter riformare i Trattati, cambiare l’Unione Europea, urge abolire la regola del voto all’unanimità. Se non lo faremo, avremo solo due alternative (sempre a seconda di quanto incideranno le spinte populiste dentro ogni Stato membro): la prima, che la UE si frantumi lentamente, sull’esempio Brexit, morendo ogni giorno di più per manifesta inutilità; la seconda, che si crei un’altra UE più piccola a geometria variabile, di “chi ci sta”. Di volta in volta cioè, ad esempio, sulla difesa comune, si potranno costituire intese per la c.d. “cooperazione rafforzata” e si andrà avanti così. Lo prevedono già i Trattati, e a quel punto i piccoli Stati e gli altri, prima o poi, si faranno un’altra Unione “light” per loro conto, o se ne andranno del tutto.

Ecco perché, tra le tante misure possibili per salvare l’UE, quella dell’abolizione dell’unanimità è forse la prima e più importante.

Francesco Caroli