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L’Ora della psicologa – Attacchi di panico? Ecco come riconoscerli e affrontarli
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L’Ora della psicologa – Attacchi di panico? Ecco come riconoscerli e affrontarli

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A seguito delle mail ricevute, inauguriamo la rubrica dedicata alla psicologia con un approfondimento su un argomento molto sentito al giorno d’oggi: gli attacchi di panico. Da una recente indagine emerge, infatti, che circa 10 milioni di italiani nel corso della loro vita hanno vissuto almeno una volta l’esperienza di un attacco di panico e che 2 milioni di questi abbiano sviluppato un vero e proprio disturbo con attacchi ripetuti, ansia e fobie.
“Che sta succedendo? Mi sento instabile, ho paura di perdere l’equilibrio, irrigidisco le gambe, la schiena, il collo, blocco il respiro, sento che sto per svenire, ho paura! Mi sento distaccato da me stesso e da ciò che ho intorno, mi si annebbia la vista, aumenta la paura e la sensazione di soffocare… respiro male, sto perdendo il controllo, sto impazzendo! Oddio, non mi era mai successo nulla del genere… devo muovermi, scappare, appoggiarmi a qualcosa, qualcuno… ho bisogno di aiuto!”
Questo è solo un esempio di ciò che accade nella mente di una persona in preda a un attacco di panico.
L’attacco di panico può essere definito come un periodo di tempo limitato in cui si manifestano in maniera molto intensa paura e disagio, che raggiungono il loro picco massimo in dieci minuti circa. La paura, seppur incontrollabile, forte e improvvisa, non è associabile ad alcuna minaccia reale ed è spesso accompagnata da alcuni sintomi fisici dovuti all’attivazione del sistema simpatico (come ad esempio: palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia, sudorazione, tremori fini o a grandi scosse, dispnea o sensazione di soffocamento, sensazione di asfissia, dolore o fastidio al petto, nausea o disturbi addominali, sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento), o cognitivi (ad esempio: derealizzazione, ovvero sensazione di irrealtà, o depersonalizzazione, cioè la sensazione di essere distaccati da se stessi, paura di perdere il controllo o di impazzire, paura di morire). Questo avviene poiché nel cervello si scatena un segnale che “scatta” in maniera errata: un falso allarme che preannuncia il rischio di morte o pericolo, causato da una disfunzione del corpo. Secondo il modello cognitivo del disturbo di panico, infatti, gli attacchi si verificano quando, a causa di uno stimolo esterno o interno avvertito come minaccioso, gli individui percepiscono alcune sensazioni corporee come molto pericolose, cioè le interpretano come segnali di un’imminente e improvvisa catastrofe. Tutto ciò porterà ad un incremento della preoccupazione e si acuiranno le sensazioni somatiche, fino a causare un vero e proprio attacco di panico.

A seguito del primo attacco, aumenterà, inoltre, nell’individuo la cosiddetta ansia anticipatoria, ovvero la paura che l’attacco possa manifestarsi nuovamente. Proprio a causa dell’ansia anticipatoria, chi ha avuto un attacco di panico vivrà nel terrore che esso possa ripresentarsi e farà di tutto per evitarlo, mettendo in atto dei comportamenti protettivi (ad esempio: non usare la macchina, non andare in determinati luoghi, ecc.) che non faranno altro che vincolarlo, impedendogli di vivere al meglio la propria vita. L’evitamento di tutte le situazioni potenzialmente ansiogene diviene la modalità di comportamento prevalente e il soggetto, assieme ai suoi familiari che vengono coinvolti in questo circolo vizioso, diviene schiavo del panico. Ciò, inoltre, non farà altro che accrescere il senso di frustrazione che deriva dal dover dipendere dagli altri, e potrà condurlo a una depressione secondaria.
Gli attacchi possono essere di due tipi: inaspettati (spontanei, non provocati), ovvero non associati a uno stimolo situazionale (si manifesta quindi all’improvviso), oppure situazionali, che si manifestano quasi invariabilmente e immediatamente all’esposizione ad uno stimolo situazionale e sono meno comuni.

La frequenza e la gravità degli attacchi di panico varia da persona a persona. Alcuni, infatti, presentano attacchi moderatamente frequenti (ad es., una volta a settimana), che si manifestano regolarmente per mesi. Altri raccontano di brevi serie di attacchi più frequenti (ad es. ogni giorno per una settimana) con settimane o mesi senza attacchi o con attacchi meno frequenti per molti anni.
Così come le persone si differenziano rispetto alla predisposizione all’ansia, allo stesso modo gli individui si distinguono rispetto all’intensità del timore che le sensazioni corporee possono suscitare in loro. Parliamo di Anxiety Sensitivity, ovvero un costrutto che si riferisce alla paura delle sensazioni legate all’arousal (attivazione) neurovegetativo che nasce dalle credenze riguardo alle conseguenze negative di queste sensazioni. Si riferisce a tutte le sensazioni associate all’arousal autonomico, quali: palpitazioni; parestesia; sudorazione; dispnea o sensazione di soffocamento; sensazione di asfissia; dolore o fastidio al petto; tremori; difficoltà di concentrazione; confusione mentale; derealizzazione.
Le persone con una bassa Anxiety Sensitivity ritengono che le sensazioni legate all’attivazione siano fastidiose, ma non pericolose. Le persone con un’alta Anxiety Sensitivity, ovvero individui maggiormente predisposti agli attacchi di panico, al contrario, intrattengono credenze catastrofiche riguardo le sensazioni legate all’arousal ansioso. Questi soggetti credono, infatti, che tali sensazioni legate all’ansia possano essere molto pericolose e produrre conseguenze disastrose, quali: malattia fisica/morte (sono terrorizzati dalle palpitazioni perché credono che evolveranno in un arresto cardiaco); perdita di controllo mentale/pazzia (la sensazione di derealizzazione è terrorizzante perché credono che porterà alla pazzia o alla perdita di controllo sui propri comportamenti); umiliazione/ostracismo sociale (i tremori sono terrorizzanti perché credono che questo li porterà a essere ridicolizzati o rifiutati).
In molti casi, l’attacco di panico è legato all’agorafobia, ovvero l’ansia relativa al trovarsi in luoghi o situazioni dalle quali sarebbe difficile (o imbarazzante) allontanarsi, o nelle quali potrebbe non essere disponibile aiuto nel caso di un attacco di panico inaspettato o sensibile alla situazione, o di sintomi tipo panico. I timori agorafobici riguardano tipicamente situazioni caratteristiche che includono l’essere fuori casa da soli, l’essere in mezzo alla folla o in coda, l’essere su un ponte e il viaggiare in autobus, treno o automobile.
Ma come mai una persona che valuta minaccioso trovarsi lontano da figure protettive dovrebbe reagire con ansia agli spazi aperti, come ad esempio le piazze? La risposta è semplice: frequentemente per gli agorafobici, infatti, la familiarità ha un potente effetto rassicurante – anche quando è disgiunta dalla protettività – e a volte maggiore di quello della protettività stessa. Un figlio anche molto piccolo (ad es. 2-3 anni) può avere una elevata capacità rassicurante. Seppur sia difficile immaginare che per un agorafobico un figlio di 2-3 anni possa costituire una valida fonte di aiuto, sostegno e protezione, emerge dai racconti di questi soggetti che l’effetto rassicurante è legato perlopiù a una sensazione di familiarità e non di protettività.
Tra i trattamenti più efficaci per il disturbo di panico, come dimostrato dalla letteratura scientifica, vi è sicuramente la terapia cognitivo-comportamentale. La terapia parte dal presupposto che non siano le situazioni in sé a scatenare l’attacco di panico, ma i pensieri associati a quel determinato evento e come noi li gestiamo e interpretiamo. Si rivelerà utile, infatti, identificare i propri pensieri relativi all’ansia, esercitarsi a mettere in dubbio tali convinzioni e sostituire tali pensieri disfunzionali con altri più vicini alla realtà. Questo farà sì che con il tempo la persona impari a non aver paura delle sensazioni fisiche di ansia e, non avendone paura, imparerà a conviverci aspettando che passino ed evitando così l’escalation di ansia che porta al panico. Fondamentale, inoltre, è non mettere in atto strategie di evitamento, ma piuttosto cercare di esporsi, gradualmente, alle situazioni ritenute pericolose o alle sensazioni fisiche vissute come fonte di allarme. È necessario abbandonare progressivamente tutti quei comportamenti protettivi che infondono nel soggetto quell’irreale senso di sicurezza, come ad esempio farsi accompagnare da qualcuno, portare con sé dei tranquillanti, ecc. Molto utili, infine, nel trattamento del disturbo di panico, risultano le tecniche di rilassamento, affinché il soggetto impari a riconoscere le proprie sensazioni corporee e soprattutto impari ad accettare le emozioni negative.

Viviana Guadalupi

Per contattare la psicologa potete scrivere a: viviana.guadalupi88@gmail.com