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La televisione, Sanremo e un Paese che non riesce a cambiare
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La televisione, Sanremo e un Paese che non riesce a cambiare

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Se questa settimana televisiva fosse un romanzo probabilmente sarebbe uno di quei romanzi lunghi e densissimi di avvenimenti che ti catturano e non vedi l’ora di finire, ma che dopo una settimana hai dimenticato totalmente. Sanremo è una settimana santa, una specie di evento mistico e religioso in cui si viene aggrovigliati anche contro la propria volontà, che monopolizza palinsesti, giornali, conversazioni al bar e chat di WhatsApp. Finita la penitenza, si risorge e si ricomincia a vivere. Ma nel frattempo, se ne parla. Con un problema di fondo: se ne parla dicendo che è lo “specchio del Paese”. È davvero così? L’Italia è un paese che si specchia troppo ma che non vede la realtà – cioè che è invecchiato ed è invecchiato male – e vive dei riflessi passati, di glorie vere o presunte vecchie di secoli, di retaggi culturali antiquati e surreali, di retorica e politically correct vecchio stampo. L’Italia è un paese fortemente politicizzato, con una politica fortemente polarizzata, con una polarizzazione che esita spesso in scontro esasperato; un paese così politicizzato che tutto fa politica e dove anche un artista, un attore, un cantante deve essere collocato da qualche parte per poter decidere se tifare per lui o meno. Il Festival di Sanremo, la casa della polemica fine a se stessa, diventa fulcro (spesso anche volontario) degli opinionismi di una settimana (forse anche delle settimane precendenti e di quella successiva) e narcotizza il dibattito come una specie di drogatura collettiva. Insomma, alla fine di che si è parlato a Sanremo? Della violenza sulle donne, sì, ma come? Basta davvero un monologo (potente, è vero) letto dalla Jebreal per poter dire di aver affrontato il tema? O una canzone affidata a Jessica Notaro per riportare l’attenzione su aggressione e femminicidi? Bastano le gargantuesche e fluide esibizioni di un (grande) Achille Lauro per abbattere i muri del pregiudizio e delle etichette da voler dare a tutti i costi? No, ovviamente, non bastano; a maggior ragione se esibizioni del genere sono inframezzate da un monologo senza né capo né coda di Diletta Leotta, un insulso mappazzone di parole al vento che frantumava ogni logica e si concludeva con “beh, alla fin fine se sono qui è perché sono bella”. What? Ma come? Non dovevate dire l’esatto contrario?; o inserite in uno spettacolo troppo lento, troppo lungo, troppo distogliente, troppo pieno di cose vuote. Si è parlato di diversità, disabilità, inserimento sociale, okay. Ma come? Con un’esibizione di un ragazzo affetto da SLA? E basta? Il punto è: basta parlarne per parlarne davvero? Serve a qualcosa piazzare una pillola di società civile invisibile altrove, per potersi lavare le coscienze? È chiaro: il Festival dovrebbe essere ab origine un programma musicale, dovrebbero contare le canzoni, la musica, i cantanti, ma si è trasformato nel corso degli anni in un carrozzone che porta con sé lo spettacolo inteso a più livelli: intrattenimento, racconto, show. È per questo che dovremmo pretendere un po’ di più: un po’ più qualità nella narrazione e meno quantità, un momento potente in più e dieci riempitivi in meno. Dovremmo pretendere che di un problema non se ne parli e basta ma che si agisca; dovremmo pretendere che ciò che Achille Lauro fa sembrare un’eccezione, possa diventare la normalità e non scandalizzi più; dovremmo pretendere che non ci sia più la rabbia di cui parla Anastasio o il disagio di cui parla Levante o che stare un passo avanti non diventi solo un siparietto da cabaret. Dovremmo pretendere di cambiare.
Stop, un attimo. Forse allora Sanremo è davvero lo specchio del paese: un paese che vive di slanci che non si concretizzano, che cambia tutto per non cambiare mai, che annuncia rivoluzioni che non fa, un paese vuoto, che parla parla e non fa mai, che si culla di un passato remoto (glorioso?) e sta lì, fermo in riva al fiume: ogni tanto si riflette nell’acqua come Narciso, ogni tanto controlla l’orologio per vedere tra quanto passerà il suo cadavere. Una partita a tennis tra autocompiacimento e rassegnazione, della quale ci crediamo giudici dallo scranno dei nostri salotti. Invece siamo solo la pallina gialla. E cosa può pretendere una pallina gialla?

[Foto di copertina da rollingstone.it]

F. Taurisano