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La SuperLega, Agnelli e l’Happy Casa Brindisi
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La SuperLega, Agnelli e l’Happy Casa Brindisi

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BRINDISI – «Ho parlato con Gianni Petrucci, presidente della Federazione italiana pallacanestro. Nel basket hanno trovato una coesistenza. È un precedente e riguarda il secondo sport europeo. Se osserviamo il percorso che ha portato alla nascita dell’Eurolega e dell’Eurocup troviamo un percorso analogo al nostro. Perché il calcio no?».

Così Andrea Agnelli su La Repubblica. E ha ragione, perché nel basket, se l’Happy Casa Brindisi dovesse vincere lo scudetto, non potrebbe partecipare all’Eurolega, sistema basato su licenze pluriennali. Venezia ad esempio, pur avendo vinto scudetti, non vi ha avuto accesso. Eppure nessun tifoso di basket si strappa le vesti per questo. Anzi.

In Italia tra l’altro il campionato italiano è di gran lunga meno seguito delle “superleghe” Eurolega e Nba. Possiamo dire che lo seguono davvero pochi intimi. Il campanile, insomma, non pare interessare molto le giovani generazioni, che si legano ai campioni più che al resto; probabile effetto di una società sempre più globale e liquida. Ecco perché Andrea Agnelli dice un’altra cosa esatta quando afferma che «I più giovani vogliono vedere i grandi eventi e sono meno legati agli elementi di campanilismo che hanno segnato le generazioni precedenti, compresa la mia. Un terzo dei tifosi mondiali segue due club che spesso sono tra i fondatori della Superleague, il 10 per cento segue i grandi giocatori e non i club, due terzi seguono il calcio più per ‘il timore di perdere qualcosa’ che non per altro, e il dato più allarmante è che il 40% per cento di coloro che hanno fra i 16 e 24 anni non ha interesse nel mondo del calcio. Andare a creare una competizione che simuli ciò che fanno sulle piattaforme digitali — come Fifa — significa andargli incontro e fronteggiare la competizione di Fortnite o Call of Duty che sono i veri centri di attenzione dei ragazzi di oggi, che spenderanno domani».

Ragionamento perfetto perché estremamente logico e aderente alla realtà.

Tito Boeri, sempre su La Repubblica, in un editoriale prova a smontare il parallelismo tra superleghe del basket e del calcio con una considerazione falsa: “Negli sport di squadra americani – prova a spiegare – si segna molto. Di conseguenza, è più probabile che si applichi una specie di ‘legge dei grandi numeri’: è praticamente impensabile che una squadra di una lega minore possa battere i Lakers. Il calcio è uno sport in cui si segna poco, e quindi le grandi sorprese sono possibili: una squadra di serie C può eliminare il Real Madrid in Coppa del Re, una Corea può battere l’Italia, una Grecia può vincere un europeo, un’Atalanta può quasi arrivare in semifinale di Champions League, una Steaua Bucarest può vincerla. L’esito di una partita non è mai completamente scontato. Questo spiega perché nel calcio ci possano essere squadre in grado di essere a lungo competitive nonostante un bilancio limitato: Atalanta, Napoli, Lazio e Udinese spendono un terzo di Milan, Inter, Roma e Juventus per ogni punto guadagnato. È anche questa imprevedibilità che ha reso il calcio lo sport più popolare e più partecipato al mondo, ed è questo che la Superlega negherebbe agli appassionati perdendo gradualmente di interesse”.

Questo assunto, come detto, è falso ed è vero l’opposto. Nel basket, infatti, succede di sovente che squadre con budget infinite volte inferiori rispetto all’Armani Milano (o alla Virtus Bologna) arrivino davanti in classifica o vincano lo scudetto (basti ricordare gli scudetti vinti da Sassari e Venezia o i prodigi compiuti da Varese e Brindisi, accomunate – non casualmente – dallo stesso allenatore).

Molto diverso è il discorso nel calcio, e a spiegarlo bene è sempre Agnelli: «Allora, partiamo dai dati: nei quarti di Champions abbiamo tutte le squadre che dovevano essere lì, in Germania il Bayern ha vinto 8 campionati di fila, in Francia c’è un’egemonia, in Spagna un duopolio e in Italia negli ultimi cento anni di storia 80 campionati sono stati vinti da Juventus, Milan e Inter. Dunque l’ambizione delle piccole è legittima ma dall’altra parte abbiamo una statistica lunga un secolo. Mi preoccupa il populismo che ostacola il dialogo su questa iniziativa», conclude Agnelli. Ecco, appunto, il populismo.