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Il COVID-19 rientra nel rischio d’impresa: sì allo sfratto del conduttore esercente un’attività commerciale

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Il Fatto. Con atto di citazione ritualmente notificato, l’attrice conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Roma, l’intimata –esercente un’attività commerciale- al fine di ottenere: la convalida dello sfratto per morosità; l’emissione di decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo nei confronti della debitrice per il mancato (integrale) pagamento dei canoni di locazione di aprile e maggio 2020 e per il versamento del residuo dovuto per la mensilità di giugno 2020, oltre ai canoni a scadere fino al rilascio effettivo dell’immobile ed interessi di mora sulle singole scadenze sino al soddisfo; la risoluzione del contratto di locazione commerciale per rilevante inadempimento della conduttrice.

Si costituiva in giudizio la convenuta, la quale contestava l’avversa pretesa, ritendendola infondata in fatto ed in diritto; chiedeva che venisse accertato il proprio diritto alla totale ritenzione o, quantomeno, alla riduzione –nella misura del 75%- del canone contrattualmente pattuito, in conseguenza della sfavorevole congiuntura economica determinatasi a causa della situazione emergenziale da COVID-19 e, da ultimo, spiegava domanda riconvenzionale finalizzata ad ottenere la risoluzione del contratto di locazione per eccessiva onerosità sopravvenuta, ai sensi dell’art. 1467, I comma, c.c.

Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale, con ordinanza, disponeva il mutamento del rito ed il rilascio dell’immobile.

Quindi, istruita la causa attraverso l’acquisizione di produzione documentale, la stessa veniva trattenuta a sentenza al termine dell’udienza di discussione e decisa mediante lettura del dispositivo.

La pronuncia. Il Tribunale di Roma, con la Sentenza n. 11336 del 30 giugno 2021, ha accolto la domanda dell’attrice, dichiarando risolto il contratto di locazione intercorso tra le parti per grave inadempimento della locataria.

Il Tribunale ha, contestualmente, ritenuto meritevole di accoglimento la riconvenzionale spiegata dall’intimata, accertando l’eccessiva onerosità sopravvenuta del rapporto, per il periodo successivo al deposito della domanda in oggetto e, dunque, con esclusione dell’efficacia (retroattiva) dell’esimente per il periodo oggetto di contestazione.

Infine, il Giudice, ha rigettato ogni altra domanda, condannando la debitrice al pagamento delle spese di lite.

Le motivazioni. Il Tribunale capitolino, non solo non smentisce sé stessa, rimanendo fedele ai principi più volte espressi in materia, ma si spinge addirittura oltre.

Con un’interpretazione indubbiamente “audace” del complesso normativo afferente all’inadempimento di una delle parti (il conduttore) del rapporto di locazione commerciale, il Giudice del merito ritiene che la sospensione delle attività, disposta dal Governo per arginare la diffusione del virus, debba considerarsi come fatto ricadente nell’ambito della: “(…) sfera di rischio dell’imprenditore-conduttore”.

Trattasi, ad avviso del giudicante, di fenomeno integrante quel c.d. rischio d’impresa che il locatario, proprio in quanto esercente un’attività di tipo commerciale, dev’essere in grado –almeno potenzialmente- di prevedere e valutare ex ante, al momento della sottoscrizione del contratto.

Le misure di contrasto alla pandemia, e la conseguente serrata della maggior parte dei locali adibiti a pubblico esercizio, o comunque inseriti nel ciclo produttivo a vario titolo, sono direttamente dipendenti dalla decretazione d’urgenza adottata dal Governo ed in nessun caso possono essere ascritte ad inadempimento del locatore o ad impossibilità sopravvenuta.

Quanto al primo, evidenzia il Tribunale come, in virtù della normativa emergenziale e della compressione della libertà personale ad essa conseguente, il conduttore non abbia potuto esplicare liberamente la propria attività economica non per indisponibilità/inadeguatezza dei locali –dei quali ha sempre pacificamente potuto disporre, senza limitazione alcuna- ma per il c.d. factum principis costituito dall’impossibilità –decretata dall’esecutivo- di svolgere l’attività per la quale gli stessi sono stati locati.

Quanto alla seconda, altrettanto non configurabile nel caso di specie, si evidenzia in sentenza come un’obbligazione pecuniaria –quale quella relativa al versamento del canone- non possa giammai divenire oggettivamente impossibile, vista la natura fungibile del bene denaro.

Pertanto, a fronte di un soggettivo, grave e rilevante, inadempimento del conduttore, è riscontrato dal Giudice del merito, con propria discrezionale valutazione, un esatto adempimento alla propria prestazione da parte dell’intimante, consistente nella concessione, per l’uso pattuito, dei locali di sua proprietà al conduttore, anche in epoca di lockdown.

Per questi motivi, merita accoglimento la domanda dell’attrice volta ad ottenere la risoluzione del contratto, sulla base dei principi generali di cui all’art. 1455 c.c., alla luce della rilevanza e della “non scarsa importanza” dell’inadempimento di una delle parti (il conduttore) rispetto all’interesse (inesistente) dell’altra (il locatore) alla prosecuzione di un rapporto contrattuale di locazione commerciale il cui sinallagma risulta inevitabilmente alterato, per effetto delle conseguenze richiamate dell’attività del Governo.

, tantomeno, ad avviso del Tribunale di Roma, può configurarsi, in seguito alla crisi economica derivante dalla (ancora attuale) situazione emergenziale, un vero e proprio diritto del conduttore alla sospensione o alla riduzione del canone, ovvero ad una rinegoziazione dello stesso.

Se, infatti, può ritenersi legittima una richiesta avanzata in tal senso dal debitore/intimato, non è, per ciò stesso, consentito sostenere che il locatore debba necessariamente prestare adesione alla stessa, neppure invocando i principi di solidarietà sociale, di buona fede e di correttezza nell’esecuzione dei contratti, sanciti, rispettivamente, dall’art. 2 della Costituzione dall’art. 1374 del codice civile.

Sul punto, il giudice romano richiama il granitico orientamento della Suprema Corte, secondo il quale, nell’esecuzione di un accordo pattizio, ciascuna parte ha il dovere di agire in modo tale da preservare gli interessi dell’altra “(…) nei limiti in cui ciò possa avvenire senza un apprezzabile sacrificio a suo carico.” (Cass. Civ., Sent. n. 10182/19; Cass. Civ., Sent. n. 15669/2007; Cass. Civ., Sent. n. 264/2006; Cass. Civ., Sent. n. 2503/91).

Tale rigorosa interpretazione del complesso normativo preso in esame con la pronuncia in commento, trova ulteriore conforto, ad avviso del Tribunale, in una duplice circostanza.

Da un lato, nessuna disposizione normativa ha espressamente escluso l’obbligo di pagamento del canone per il (titolare del) locale che è stato costretto a sospendere la propria attività in osservanza alle norme anti-Covid-19.

Dall’altro, tutte le misure fiscali adottate a sostegno degli esercenti in crisi per effetto della pandemia, dal c.d. Cura Italia in poi, presuppongono, comunque, l’effettivo versamento del canone, o, in alternativa, l’accettazione espressa della sospensione e/o riduzione (del canone) da parte del locatore.

In questo senso, resta esclusa ogni forma di sostanziale –ed unilaterale- autotutela posta in essere, autonomamente, dal conduttore.

Diversa sorte merita, invece, la domanda riconvenzionale della convenuta volta ad ottenere la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, ai sensi dell’art. 1467 c.c., primo comma, sia pure nei limiti di cui diremo.

Certamente la pandemia e la crisi emergenziale che ne è scaturita possono integrare, ad avviso del Tribunale, gli estremi del fatto straordinario ed imprevedibile cui fa espresso riferimento il richiamato articolo, ai fini della risoluzione del contratto, ma l’efficacia solutoria del vincolo non può assolutamente estendersi –retroattivamente- al periodo antecedente alla proposizione in giudizio della autonoma (relativa) domanda.

Ricorda, in proposito, il Tribunale di Roma, che l’evento eccezionale non può essere opposto come mera eccezione, al fine di contrastare l’altrui richiesta d’adempimento e non può mai integrare gli estremi necessari e sufficienti a fondare un’azione di rettifica del canone.

Ne deriva, inevitabilmente, che dev’essere esclusa la retroattività degli effetti della risoluzione, e la produzione degli stessi per il solo periodo successivo e posteriore alla proposizione della stessa. (Cass. Civ., Sent. n. 20744/2004). (Fonte)

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