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I conflitti della storia che non finiscono mai
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I conflitti della storia che non finiscono mai

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Come il fuoco che cova sotto la cenere e talvolta non si vede nemmeno, così le “ferite della Storia” restano per l’eternità a minacciare i posteri. Secondo Paolo Mieli nel suo più recente saggio “Ferite ancora aperte”, gli esempi sono molti, primo dei quali il conflitto tra Ucraina e Russia. In questo caso, la ferita risale almeno al 1917, al tempo del crollo dell’Impero zarista e della nascita dell’Unione Sovietica, con contestuale creazione della repubblica ucraina, più o meno dal nulla. Così il nazionalismo ucraino, prima quasi assente, ha potuto covare sotto la cenere fino al 1991, quando l’URSS si è dissolta, ed è nata l’Ucraina indipendente.

Ma quanto le ferite aperte della Storia possono darci un’idea del futuro della Russia di Putin? Si è già detto che il novello Zar ambisce a ricostituire l’Impero zarista e a riprendersi un ruolo da grande potenza, in competizione diretta con il primo impero d’Occidente, cioè gli USA. La stessa minaccia di far valere il suo enorme arsenale nucleare nel conflitto ucraino serve a ricordare a tutti che questa volta non abbiamo a che fare con l’Isis o con Al-Qaida, o un altro mediocre stato-canaglia, bensì con una potenza dotata di strumenti di distruzione di massa terrificanti, tali da distruggere il pianeta in poche ore.

Per valutare la concretezza della minaccia si possono considerare molti fattori da tanti punti di vista. Proseguiamo sul filone interpretativo delle ferite della Storia, tenendo conto che per la Russia vale sempre quello che diceva Churchill dell’URSS nel 1939: “E’ un rompicapo avvolto in un mistero all’interno di un enigma.”

Sette mesi di guerra in Ucraina hanno dimostrato che la Russia è incapace di gestire una guerra tradizionale con mezzi convenzionali in campo aperto. Naturalmente ci sono tutta una serie di condizioni (tipo la quantità di armi che i difensori ucraini hanno ricevuto dall’Occidente), ma se ne può trarre un primo elemento di debolezza del “sistema Russia”. Altro elemento di debolezza che può nascondere un’insidia mortale è dato dalla fretta di Putin di annettersi fisicamente le province ucraine del Donbass, solo sette mesi dopo averne riconosciuto l’indipendenza dall’Ucraina. Una manovra che in teoria impedisce per sempre qualsiasi trattativa di pace, perché la Russia ora dovrebbe accettare di perdere pezzi del proprio territorio, non di quattro repubblichette fantasma. A che giova una mossa apparentemente così autolesionista? Serve a dire che ora l’esercito ucraino è entrato in territorio russo, quindi paradossalmente la Russia deve difendersi? Difendersi ricorrendo all’arma atomica?

Ci sono altri elementi che fanno pensare a un indebolimento del sistema. Intanto le crisi, se non i veri e propri conflitti armati nelle repubbliche ex-sovietiche ai margini dell’Impero. Conflitti che anche in base ai trattati vigenti con la Russia, impegnano quest’ultima a intervenire militarmente. Ma quanti fronti è in grado di gestire l’esercito russo? Servono a questo i trecentomila coscritti che (faticosamente) Putin ha mobilitato da un giorno all’altro? O i coscritti sono un milione, come la stessa stampa russa ha ipotizzato?

Vediamoli, questi conflitti periferici. Innanzitutto tra Armenia e Azerbaijan, cioè – detto volgarmente – tra cristiani armeni e musulmani azeri, gli uni sostenuti dai russi e gli altri dai turchi (ancora un’ingerenza del Sultano in un’area strategica ricca di gas e di petrolio). La contesa tra i due Stati è per la sovranità sulla provincia del Nagorno-Karabakh, formalmente azera, ma occupata da tempo dagli armeni. Una ferita aperta da secoli, sull’onda del ricordo delle stragi dei turcomanni sugli armeni e viceversa.

Poi ci sono altri conflitti, altre ferite secolari aperte dopo la caduta dell’URSS. Per esempio, il conflitto tra Georgia e la stessa Russia, per la sovranità sulle province dell’Ossezia del Nord e l’Abkhazia. In questo caso, si noti che la Georgia ha chiesto di entrare nella Nato e addirittura nella UE, ricevendo aperto sostegno dagli Stati Uniti. O il conflitto tra Tajikistan e Kirghizistan, per una disputa storica sui confini, anche qui probabilmente rafforzata dai cospicui giacimenti di materie prime dei due Stati, che ha generato più di una scaramuccia tra i due eserciti, proprio mentre era in corso il vertice SCO (Shanghai Cooperation Organisation) a Samarcanda il 15 settembre scorso. O le sommosse popolari in Kazakhstan, a gennaio, represse dall’intervento militare di truppe miste russe e di altri Paesi dell’area. O la situazione sempre tesa in Transnistria, lo stato fantasma filo-russo creato da una secessione dalla Moldova. In Transnistria c’è un contingente di poco meno di duemila soldati russi, da anni, stretto tra Ucraina e Moldova, il cui governo ha chiesto di entrare nella Nato e nella UE (la Moldova è Paese candidato, attualmente, al pari di altri Paesi balcanici e della Turchia). Con l’aggressione russa all’Ucraina, la Transnistria si è precipitata a chiedere a Putin l’annessione alla Russia, non si capisce se per scompaginare le carte o se per “proteggersi dall’aggressività della Nato”.

Con tutte queste ferite aperte all’esterno, la Russia rischia di fare il pieno dei problemi possibili grazie alla reazione dei giovani alla mobilitazione “parziale” decisa da Putin. Pare che più di centomila persone siano fuggite all’estero (261mila secondo la Novaja Gazeta). Infine, sempre molto difficili da decifrare, si fanno più numerose le voci di apparente dissenso all’interno della Russia, e non solo da ambienti tradizionalmente critici, come i seguaci di Navalnyj.

Non consideriamo, nel computo dei problemi, la partita economica, se è vero, come insiste Putin, che il popolo russo è abituato a ben altri sacrifici se è in gioco la difesa della patria, e quindi che il PIL scenda del 10 o del 15 per cento gli è del tutto indifferente. Ma tutti gli altri elementi costituiscono un puzzle difficile da ricomporre, soprattutto se una delle tessere (l’Ucraina) appare al momento una ferita aperta davvero, e sanguinante in abbondanza. In un primo tempo si pensava che il tempo giocasse a favore di Putin e a contro l’Occidente, e in quest’ultimo caso è vero (vedi alla voce gas e bollette). Ora si pensa che il tempo – viste tutte quelle tessere del mosaico che stanno esplodendo una ad una – giochi anche contro Putin. O lui riesce a conquistare una vittoria sul campo, e questo sembra davvero impossibile, o ricorre all’arma atomica (tattica? strategica?) per risolvere la situazione. Oppure… muoia Sansone con tutti i filistei, o qualcuno taglierà la testa, più che i capelli, a Sansone?

Francesco Caroli