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Hanno ancora senso i partiti politici?
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Hanno ancora senso i partiti politici?

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Le caratteristiche di quelle visioni del mondo che hanno dato vita ai partiti di massa del 900? Erano “pensieri assoluti”, motivanti, spingevano migliaia di persone a dedicare una parte importante delle proprie energie alla “causa”. A volte persino a sacrificare la vita, propria o altrui. Erano visioni del mondo antagoniste e totalizzanti. O radicalmente contrarie allo stato di cose presente o altrettanto radicalmente favorevoli alla sua difesa. Tutte reagivano a uno dei più grandi cambiamenti della storia umana: l’avvento della società industriale di massa. Si pensava che fosse in gioco qualcosa di molto importante, di decisivo, e che si dovesse e si potesse cambiare. E che quel qualcosa potesse fare davvero la differenza. Anzi il cambiamento era ritenuto non solo possibile ma imminente. E non solo per cambiare gli ordinamenti politici e gli assetti sociali ma persino costruire l’uomo nuovo. Per qualcuno era morto Dio e l’occidente era al tramonto.

Ma ci sono oggi le condizioni per far nascere o rinascere quel tipo di partiti? Le grandi sfide inedite del nostro tempo, seppure enormi, sono paragonabili a quel passaggio d’epoca tra fine dell’800 e inizio 900? Dove sono le persone e le teorie (i pensatori) capaci di ridefinire quel tipo di “visioni del mondo”? In grado di ricostruire quel senso che motiva migliaia di persone? E ci sono “masse” che possano far rivivere quei partiti? La crescente complessità delle società contemporanee sembra escludere ogni ipotesi bianco/nero, dominano le sfumature, le interconnessioni, le interdipendenze.

Forse, allora, è preferibile accettare e adattarsi al fatto che le condizioni storiche per la formazione di identità basate su quei grandi pensieri e pensatori oggi, almeno in Europa, non ci sono più. E alla luce delle tragedie del 900 possiamo anche dire per fortuna.

Invece di rimpiangere partiti “visioni del mondo” assolute e totalizzanti è quindi meglio proporsi di far vivere partiti che svolgano una funzione che può apparire minore ma minore non è: far funzionare le istituzioni della democrazia rappresentativa conquiste al prezzo delle tragedie del 900. Se proposto con autenticità e convinzione, creare e far vivere strumenti capaci di contribuire a rendere più efficace la democrazia può diventare anche un tratto distintivo forte, capace di motivare ad agire, svilluppare senso di appartenenza. Soprattutto se si condivide il fatto che quello attuale è il momento più critico che le società democratiche stanno vivendo dopo la fine della II guerra mondiale sotto l’incalzare delle autocrazie e del nuovo assetto geopolitico determinato dalla globalizzazione.

Quindi se vogliamo riaffermare il ruolo dei partiti politici, riflettiamo con pazienza ma anche con precisione sulla funzione che devono svolgere nelle società democratiche e che ne legittima l’esistenza. Proprio in queste settimane abbiamo avuto conferma di quello che da tempo hanno chiarito i più autorevoli scienziati politici: la principale funzione dei partiti politici in democrazia è la selezione dei candidati e la loro partecipazione alle elezioni per le varie assemblee rappresen­tative. Per questo il modo attraverso il quale avviene questa selezione diventa qualificante, per questo i partiti per legittimare tutto il processo di selezione della leadership devono avere un proprio assetto interno che garantisca trasparenza e verificabilità delle decisioni.

Molto spesso si parla con supponenza, se non sarcasmo, di partiti ridotti a “comitati elettorali” ma quello elettorale è il momento che ne giustifica l’esistenza e può essere svolto con grande qualità a partire dalla selezione, passando per la emersione dei candidati e la loro formazione nella attività continuativa tra una elezione e l’altra. Senza dimenticare la funzione essenziale di affiancamento e verifica della attività degli eletti tra una elezione e l’altra, cosa che costituisce l’altra faccia della medaglia del coinvolgimento degli elettori nella selezione.

Perciò studiosi e commentatori dovrebbero andare oltre il lamento ed entrare nel merito di come dovrebbero e potrebbero davvero essere organizzati i partiti per funzionare dignitosamente. E ci sono scelte che hanno un carattere fondativo. La prima è come può venire finanziata la vita di una burocrazia che appare sempre più parte essenziale del funzionamento delle istituzioni. Quale rapporto dovrebbe esistere tra questa burocrazia “para statale”, i community organizer (i funzionari), i candidati e gli eletti? È opportuno che i due percorsi di carriera siano separati? È opportuno evitare che i funzionari costituiscano posizioni di potere avvantaggiate che favoriscono il consolidamento di oligarchie che senza le “visioni forti” sono destinate necessariamente a perdere legittimazione allontanandosi dal rapporto con elettori e iscritti e diventando gruppi di potere fine a se stesso? In concreto è opportuno che i funzionari decidano chi viene eletto e che si possano fare eleggere mentre svolgono ruoli direttivi? E quali bilanciamenti possono essere auspicabili per evitate che partiti costruiti attorno agli eletti non corrano il rischio altrettanto preoccupante di trasformarsi in rappresentati di interessi localistici, corporativi e clientelari? Come equilibrare i poteri degli eletti con quelli degli organismi dirigenti dei partiti? È opportuno che i tempi congressuali corrispondano con quelli elettorali? I meccanismi di selezione degli organismi locali possono essere la copia in piccolo di quello che seleziona la leadership nazionale? E si potrebbe andare avanti a precisare aspetti critici che troppi danno per scontato.

Senza dimenticare che la prima condizione per far vivere partiti di questo tipo sono le regole del gioco, non solo quelle interne ai partiti ma le leggi elettorali e quelle relative alle forme di governo ai vari livelli della rappresentanza.

Sul perché debbano esistere i partiti pare ci sia consenso, si tratta ora di entrare nel merito di come dovrebbero funzionare in pratica.

Francesco Caroli