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Da Oriente soffia il vento dello sviluppo: che città vogliamo essere?
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Da Oriente soffia il vento dello sviluppo: che città vogliamo essere?

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BRINDISI – Il mondo ci sta cambiando attorno e per una volta vorremmo ce ne accorgessimo tutti. È tempo di scelte nette, coraggiose, ma soprattutto rapide, che incideranno sulla vita dei brindisini e dei salentini per i prossimi decenni.

È in atto una rivoluzione e dobbiamo velocemente decidere cosa vogliamo fare da grandi. Se non crediamo nell’economia industriale e portuale, con la decarbonizzazione in atto abbiamo la possibilità di declinare tutte le opportunità che si stanno generosamente schiudendo su quel fronte e chiudere per sempre un capitolo della storia di questa città.

Se invece crediamo che la logistica, l’intermodalità, il manifatturiero, l’energia, possano ancora fare al caso nostro, allora dobbiamo abbracciare tutta insieme una strategia che è stata già definita ma che proprio non pare convincere questa Amministrazione comunale (ma non solo).

La geopolitica sta determinando condizioni e opportunità inimmaginabili fino a qualche anno addietro, e la sensazione, alla luce degli ultimi accadimenti, è un po’ questa: chi sta con i cinesi (e in generale con i grandi player d’Oriente) va avanti, chi li respinge viene marginalizzato. Basti vedere cosa sta accadendo nell’Alto Adriatico, con i cinesi che, per vendicarsi del fatto che Trieste ha concesso la gestione della piastra logistica ai tedeschi invece che a loro, ha deciso di sopprimere il feeder Pireo-Venezia (il primo è un porto privatizzato dai cinesi), spostando la tratta sull’Alto Tirreno, ovvero a Vado Ligure dove i cinesi “sono di casa”. Questi giochetti determinano spostamenti di vagonate di milioni di euro da un territorio all’altro e bisogna valutare attentamente prima di avventurarsi su ogni singolo “niet”.

I brindisini che temono i cinesi-cinesi possono stare tranquilli: dopo la missione in Cina dell’ente portuale risalente a un anno fa, nessun operatore si è mostrato interessato al porto di Brindisi. Probabilmente perché il traffico generato dal transhipment e dai grandi feeder, quello insomma che si caratterizza per la movimentazione di container su grandi navi, non può essere effettuato a Brindisi, dove il cono d’atterraggio non consente l’installazione di grandi gru e il pescaggio non permette alle grandi navi di ormeggiare sulle nostre banchine. E i cinesi questo gestiscono prevalentemente: grandi traffici transoceanici.

Quelli che potrebbero essere interessati a Brindisi sono invece i turchi, o i turchi-cinesi come Yilport (che opera in collaborazione con la cinese Cosco), leader nel traffico di rotabili il quale cresce di anno in anno ed interessa perlopiù un mercato europeo. Ecco, è quel mercato, quello dello short-sea, che Brindisi potrebbe aggredire qualora si riuscissero a realizzare le opere previste. E ad innervare questo processo potrebbe arrivare anche la costituzione del grande quadrilatero del Mezzogiorno, con il potenziamento dei collegamenti che da Brindisi arrivano sul Tirreno e sullo Ionio passando per l’asse secco con Taranto. Un’infrastrutturazione che potrà essere realizzata tramite il Recovery Plan e che creerebbe le condizioni per un mercato interno ed un export molto più solidi.

Yilport, allora, più che al traffico crocieristico potrebbe essere interessata alla movimentazione di rotabili su navi cargo, così coprendo sia le direttrici del transhipment tramite Taranto che quelle del piccolo feederaggio e dello short sea tramite Brindisi.

In questo gioco a incastri, il deposito gnl di Edison potrebbe rappresentare un ulteriore vantaggio competitivo che il porto di Brindisi si potrebbe giocare per attirare armatori, navi moderne e nuovi traffici. Perché è questa la ricchezza che Edison potrebbe portare, non i 30 posti di lavoro diretti sui quali tutti si stanno soffermando.

La logistica e il manifatturiero sono le vere sfide che Brindisi ha davanti, con Enel Logistics che si è detta interessata a valutare la possibilità di convertire i dome insistenti sulla istituenda zona franca in depositi logistici doganali; con un’azienda solleticata dall’idea di effettuare attività di project cargo sulla banchina di Costa Morena Est; con la zona franca portuale che a gennaio potrebbe sorgere a Capobianco, dove il verbo “sorgere” non è scelto a caso visto che il Presidente Patroni Griffi l’ha intitolata “Zona Franca del Sole”. Anche se c’è da dire che quella banchina avrebbe bisogno di essere completata per divenire pienamente operativa, e serviranno decine di milioni di euro.

Quella zona franca portuale, però, potrebbe effettivamente prestarsi all’attivazione di politiche anticicliche di attrazione delle aziende che, anche a causa delle ultime vicende legate al Covid, viaggiano sull’onda del fenomeno del reshoring.

E allora lasciamo al Copasir questi discorsi di intelligence, che poi qualcuno ci dovrà spiegare perché non sono stati fatti per i porti del Settentrione, dove i cinesi investono da anni. Taranto e Brindisi hanno bisogno di produrre economia, occupazione, un modello di sviluppo alternativo o comunque di supporto a quello della monocultura dell’industria pesante. Certo, può risultare antipatico “svendersi” prima alle grandi multinazionali e poi subito dopo ai grandi player portuali internazionali, ma finché vivremo in un mondo globalizzato, questo sarà il diktat. Soprattutto in una città che non è mai stata in grado di esprimere progettualità e visioni di ampio respiro.